“… Seconda stella a destra
questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino
poi la strada la trovi da te,
porta all’Isola che non c’è…”
La musica riecheggia nella stanza mentre Martina, mia nipote, mi sta mostrando come dovrà essere il suo costume di carnevale. Ha quindici anni ed è un tesoro. Il volume della musica è un po’ troppo alto per i miei gusti e provo a chiederle di abbassare ma, ovviamente, non mi sente presa com’è a riguardarsi l’abito, per ora solo imbastito con del filo grosso.
Si sposta di lato, poi si alza sulle punte e si rimira riflessa nello specchio, quello lungo a parete. È felice e spensierata, con lo sguardo già proiettato alla festa. Al futuro.
Di colpo mi viene in mente un’immagine che credevo di aver seppellito come quasi tutti i ricordi di quel tempo. Eccomi lì, non ancora sei anni e, come Martina, mi giravo e rigiravo davanti allo specchio. Ingenua e contenta.
Avevo preso dei ritagli di stoffa sotto il tavolo da lavoro di mia madre, erano mesi che giocavo con quelli. I pezzetti più piccoli li potevo cucire su quelli più grandi, ero brava a cucire. Creavo faccine, mani abbozzate e capelli, poi triangoli per fare i tetti delle case e piccoli vestiti senza sagoma per la mia unica bambola di pezza. Mia madre era sarta e cuciva per i nostri vicini, anche per i vicini dei nostri vicini, e quasi nessuno pagava mai però lei continuava a cucire. Anche al buio. Anche di notte, vicino alla finestra alla luce della luna. Io facevo finta di dormire e guardavo le stelle da quel rettangolo aperto sul mondo. Erano lucide e brillanti ed era quasi come se mi invitassero a seguirle e a sognare.
Le signore del quartiere venivano la mattina presto a portare i vestiti da riparare e, subito, nel pomeriggio tornavano a riprenderli. Solo qualcuna di loro portava in cambio da mangiare, e mamma cuciva. Cuciva sempre. Con i capelli legati, le mani con i calli alle dita e un sorriso, anche stanco, tutto per me. Avevo imparato a usare ago e filo guardando lei e mi divertivo con poco. Quelle piccole pezze colorate mi bastavano.
Erano giorni che mamma preparava cose identiche per tutti, uguali anche nel colore, quasi fossero degli stampi. Nella mia mente di bambina pensavo ci fosse in programma una festa in maschera: erano tutti uguali quei ritagli che avevo pensato, quasi sperato, che mamma volesse farmi una sorpresa. Con questa convinzione cercai di non far trapelare di aver capito il suo intento e giravo e volteggiavo per casa tutta contenta.
Le signore andavano e venivano e mamma continuava a cucire.
Decisi di farle una sorpresa anche io e mostrarle quanto fossi diventata brava. Dopo averla osservata per un po’ iniziai a cucire la stessa forma anche per me, solo un po’ più grande. Sarei stata la protagonista della festa.
Così, mentre mamma era in cucina, presi un bel pezzo di stoffa gialla dal suo cestino da lavoro, mi misi sotto al tavolo come sempre e cominciai a copiare il disegno che le avevo visto fare tante volte cercando di ritagliarne uno più grande; poi presi il mio cappotto bianco e con del filo grosso cominciai a cucire la stella gialla. Bellissima.
Ricordo ancora lo sguardo incredulo di mia madre quando mi vide lì, davanti lo specchio, a ridere contenta della mia grande stella gialla cucita sul cappotto.
Non compresi le sue lacrime. Non capii la sua angoscia quando strappò come una furia la stella che rimase attaccata per un solo lembo mentre io le urlavo contro la mia rabbia, chiedendomi il motivo di quel gesto violento.
Sull’attaccapanni all’ingresso sia il cappotto di mio padre che quello di mia madre avevano le stelle gialle, la mia invece era tutta da rifare.
Non ero come loro? Non dovevo avere la mia stella?
Mia madre si inginocchiò e mi prese le mani. Ricordo ancora i suoi occhi gonfi di lacrime.
«Sarah» mi disse, «queste stelle gialle sono solo per i grandi…»
Ma io insistevo e battevo i piedi.
«Tu» continuò con voce tremula, «non puoi ancora averla, devi aspettare. Quando avrai sei anni ne cucirò una anche a te.»
Ricordo che la abbracciai felice. Avrò una stella gialla anche io – pensai, ma solo dopo qualche tempo capii l’angoscia di mia madre.
In cuor suo aveva sperato di non dovermela mai cucire. Pregato affinché tutto finisse prima, invece, non solo mi cucì la stella ma fummo anche deportati nel ghetto. La nostra casa fu distrutta e ci rimase solo quel marchio sul cappotto, quel segno distintivo che tanto avevo desiderato senza capirne il significato.
Mi salvai solo io e credevo di aver sepolto il ricordo di quelle stelle gialle con tutto il resto.
Una lacrima mi scende sul viso e mi sveglio dal torpore momentaneo.
«Nonna, nonna, stai bene?»
La preoccupazione e la paura negli occhi di Martina mi fanno sentire viva. Le rispondo di essermi punta con l’ago e le dico che è bella, che quel vestito le sta bene e che sarà la principessa della festa. Lei sì, davvero.
La gioia dei suoi quindici anni spensierati è quasi troppa per me, ma non voglio piangere. Vorrei ridere apertamente come fa lei mentre le accarezzo una guancia invece le sorrido, timidamente, come faceva mia madre mentre cuciva.
Martina alza ancora il volume dello stereo. Il futuro avanza.
“… Niente odio e violenza,
né soldati, né armi,
forse è proprio l’Isola che non c’è…” (E.Bennato, l’Isola che non c’è)
Racconto pubblicato in Antologia AA.VV. Ero una crepa nel muro, edita da Giulio Perrone LAB, 2010.
La foto in copertina è di Olya Kobruseva, Pexels
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