Quando passeggio tra le strette e tortuose stradine del Ghetto, con i miei turisti al seguito, mi soffermo a descrivere la maestosità dei resti del Portico di Ottavia, o indugio davanti alla vetrina del forno storico, dove racconto la storia della cucina ebraica.
La visita del quartiere rientra tra gli itinerari per chi vuole scoprire la storia di Roma. Ogni volta che mi addentro nel Ghetto, mi accorgo che non è facile spiegare che quello che vediamo oggi non è lo stesso luogo dove, per molti secoli, gli ebrei hanno vissuto una vita in uno stato di totale reclusione.
La storia del Ghetto è una storia lunga, che inizia ufficialmente nel lontano 12 luglio 1555 quando papa Paolo IV Carafa, decise di controllare le minoranze religiose presenti a Roma ed in particolare gli ebrei, segregandoli in un’unica zona della città, che venne chiamata “serraglio degli ebrei”. Una comunità composta da circa 3000 persone tra uomini, donne e bambini, fu costretta a vivere in un’area molto esigua, di appena tre ettari e mezzo, limitata dal Tevere che spesso la inondava. Gli alti edifici dove le famiglie vivevano in uno stato di degrado e sporcizia, potevano raggiungere un’altezza fino a sei piani, vista l’impossibilità di espansione, ed erano collegati tra loro da passerelle aeree di legno.
Immaginate le dimensioni delle stradine sottostanti: dei veri cunicoli privi di luce. La zona scelta, il rione S. Angelo, era situata poco distante da quello che fino a qualche secolo prima era stato il centro del potere del mondo antico: il Foro romano. In quest’area estremamente periferica, alcuni membri della comunità risiedevano già da tempo. Il Ghetto, era delimitato da 3 varchi di ingresso sorvegliati da guardie, aperti solo di giorno. Le restrizioni imposte comprendevano regole rigide: l’obbligo di indossare un segno distintivo quando si usciva dalla zona di residenza, la proibizione di svolgere alcune professioni e l’imposizione a praticarne altre, considerate indegne per il popolo cristiano. Infine il divieto di possedere beni immobili. Nel corso dei secoli, i confini del Ghetto videro sorgere tutto intorno chiese e luoghi di culto cattolico, a rimarcare la superiorità e il controllo, sulla comunità ebraica. Tra le prescrizioni imposte, c’era anche l’obbligo di assistere, in diversi momenti dell’anno, alla celebrazione della messa.
Le condizioni migliorarono leggermente quando, in seguito ad alcune concessioni papali, venne finalmente introdotta una fontana pubblica all’interno del serraglio (fino ad allora era stato possbile reperire l’acqua solo di giorno presso una fontana collocata all’esterno del Ghetto), in seguito smantellata e ricostruita nella vicina Piazza delle Cinque Scole. Furono inoltre allargati i confini aggiungendo al perimetro esistente, la strada ancora oggi chiamata via della Reginella.
La vita nell’enclave perdurò tra difficoltà, restrizioni e disagi , fino all’unità d’Italia. Certamente in questo lungo periodo, le condizioni economiche di alcuni residenti erano superiori a quelle della maggioranza dei residenti. Una grande differenza da questo punto di vista, era rappresentata dalla posizione in cui sorgevano le abitazioni. I più abbienti vivevano nella parte interna del Ghetto (oggi a ridosso di Piazza delle Tartarughe), i meno facoltosi invece, abitavano sul lato del fiume, dove le immancabili piene avevano reso le mura dei palazzi piene di muffia e dal sinistro colore melmoso, mostrando i segni dei vari straripamenti.
L’unità d’Italia pose fine a questo scempio, il Paese finalmente si destò. Le porte del Ghetto furono definitamente abbattute, l’area riqualificata. Gli edifici addossati al Tevere vennero distrutti e al loro posto iniziarono i lavori per la costruzione di una grande Sinagoga in stile eclettico e un enorme edificio in stile “piemontese” , sede oggi del centro di cultura della Comunità Ebraica e di una scuola primaria.
Con la riapertura dei varchi e la libertà riconquistata, molti ebrei andarono a vivere altrove, ma il Ghetto rimase il cuore storico e morale della comunità. Sarà proprio qui che si consumerà una delle pagine più brutte della storia d’Italia.
Nell’ottobre del 1943, Roma assistette impotente alla deportazione nazista. Non c’era distinzione di quartiere per il rastrellamento, ma ad essere maggiormente colpita fu proprio la zona del Portico di Ottavia. 1022 ebrei vennero arrestati e inviati ai campi di concentramento. In 16 riuscirono a sopravvivere, tra questi soltanto una donna.
Oggi il Ghetto è uno dei tanti quartieri di Roma, frequentato regolarmente da turisti e romani alla scoperta della città. Il caratteristico rione si è popolato di ristoranti, bar, qualche albergo e negozi di ogni tipo, alcuni ancora orgogliosamente gestiti dalle famiglie storiche del quartiere. Le panchine nella piazzetta principale concedono un momento di relax al turista di passaggio.
L’atmosfera nel Ghetto appare come sospesa nel tempo. L’area, interdetta al traffico, accoglie il passante in una tranquillità immobile ma al tempo stesso animata da una vita di quartiere. Passeggiando nella moderna piazzetta, è facile incontrare i residenti che durante l’estate si crogiolano al caldo abbraccio del sole romano, intrattenendosi tra una chiacchiera e il ricordo di una gioventù mai veramente vissuta. I racconti di un passato doloroso vibrano nell’aria e vengono trasmessi alle generazioni più giovani, che spensierate giocano a palla proprio in quella piazza di recente costruzione, ampia e accogliente, simbolo di una libertà negata per secoli.
I ristoranti con i loro tavolini all’aperto, richiamano il visitatore incuriosito dalla cucina locale, risultato di un matrimonio ben riuscito tra piatti della tradizione romana e ricette kosher.
Il profumo del carciofo fritto riempie l’aria, la tentazione è tanta…
Finalmente è arrivato il momento di provare qualche prodotto tipico. Stavolta la sosta sarà proprio al forno di cui parlavamo prima. Golosa come sono e appassionata di cucina, faccio sempre una pausa per un assaggio per la gioia dei miei turisti e amici che mi seguono. Nel forno storico dove le tre sorelle con il camice blu dall’aria severa, lavorano da generazioni, acquisto la pizza ebraica o Pizza di Beridde, una sorta di biscottone dolce, dall’origine incerta ma molto antica. Il dolce ripieno di frutta secca e candita è davvero gustoso, cosi finisce sempre che facciamo il bis.
Dopo la sosta gastronomica, la nostra piacevole passeggiata prosegue verso il fiume dove l’isola tiberina, spartitraffico naturale tra la riva destra e sinistra della città, ci permette una vista globale del Ghetto. La mente torna per un attimo a quegli edifici squallidi e decadenti costruiti sul fiume, stretti e svettanti verso il cielo, con tante piccole finestrelle dove bimbi dall’espressione innocente e piccole manine paffute, si affacciavano verso un mondo per loro ancora libero e felice. Lo sguardo sale verso la cupola della Sinagoga, imponente e visibile da più parti della città.
L’ultimo pensiero va proprio alla cupola, alla città e all’altro simbolo della Roma eterna: il Cupolone. Ogni volta che passo dal Palatino, prima di iniziare a parlare delle vestigia imperiali, mi soffermo a guardare l’orizzonte: da quel punto di osservazione si vedono perfettamente le due cupole, quella ebraica e quella cristiana. Non posso che sorrider pensando a questa “insolita” coincidenza: dal centro del potere della Roma antica si scorgono i simboli delle fedi eterne, le uniche sopravvissute agli eventi e alle avversità umane.
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