Sono una guida turistica e per questo parlo inglese correntemente.
Seppur cresciuta nel paese leader del doppiaggio cinematografico, non sopporto l’idea di vedere un film straniero doppiato in un italiano impeccabile o con accenti arrangiati per ricreare l’invisibile illusione di una caratterizzazione che in realtà non scopriremo mai.
Negli anni ’80 e ’90 i grandi divi di Hollywood avevano tutti la stessa voce. Un famoso doppiatore italiano prestava la sua voce ad attori del calibro di Al Pacino, Sylvester Stallone, Robert De Niro, Dustin Hoffman. Terribile. Come far indossare lo stesso cappotto nero a 10 individui e cercare di riconoscerli senza guardarli in volto. Sembrano tutti la stessa persona.
Nell’ultimo decennio, finalmente, i grandi colossi della Tv satellitare ci hanno permesso di vedere i film e le serie tv in lingua originale e devo dire che sì, è decisamente un’altra cosa!
Ma perché tutto questo discorso sui film in lingua originale? Vi spiego meglio: l’Italia è tra i paesi in Europa dove la lingua inglese è parlata da una percentuale molto bassa della popolazione (intorno al 50%, tra la media più bassa in Europa). Il podio vede la Svezia, l’Olanda, e la Norvegia seguite da Danimarca e Finlandia, mentre in coda troviamo l’Italia insieme a Spagna, Bielorussia, Albania… Insomma, diciamo che la lingua inglese parlata non ci appartiene. Però, se si tratta di usare termini esterofili nel linguaggio quotidiano, ecco che il nostro vocabolario si presenta improvvisamente ricco e variegato di vocaboli “stranieri”.
Da sempre usiamo termini come hamburger, computer, check in, sport, club, mouse. Sono parole entrate a far parte della nostra vita quotidiana e neanche ci facciamo più caso se questi vocaboli appartengono al nostro lessico o no.
Secondo studi sulla lingua e l’utilizzo di termini stranieri, nell’Italia degli anni trenta, il regime fascista avviò una campagna di italianizzazione contro gli anglicismi e altri prestiti, volta ad assicurare l’eliminazione di parole importate. “L’iniziativa voleva mettere in risalto la ricchezza e l’efficacia del lessico italico: “caffè” in luogo di bar, “circolo” per club, “palla ovale” per rugby. In alcuni casi sviliva il significato e l’estetica dell’oggetto in questione: cachet (medicinale) sostituito con “cialdino” e sport con “diporto”, quest’ultimo puntualmente evitato.”
Inutile chiederci cosa sia successo dopo. Le incursioni anglofone nel nostro vocabolario quotidiano sono aumentate fino ai giorni nostri, dove non ci si accontenta più di prendere in prestito un vocabolo straniero per descrivere un’azione, un momento o un oggetto. Nel linguaggio corrente, impostato sulla tecnologia, sul riciclo e la trasformazione, le parole anglofone vengono addirittura storpiate e distorte a nostro piacimento. Ecco allora che in ambito lavorativo si parla tranquillamente di forwardare, schedulare, scannerizzare, shareare, bookare, uploadare… non avete provato una certa difficoltà a leggere alcuni di questi termini? IO SI!!
Del resto il mondo della moda ci aveva già abituati ad un lessico tutto suo, per descrivere il garbo e lo stile dell’ultimo capo in voga. A pensarci bene è davvero strano che il mondo dell’abbigliamento, pur essendo composto al 90% da creazioni italiane e francesi, nella fase descrittiva necessiti di terminologia inglese.
Non sei nessuno se quando parli di moda e tendenza, non esprimi un tuo giudizio servendoti di vocaboli quali trendy, glam, fashion, minimal chic, look, make up, gloss, extension, shopper, trench, leggings.
Certo se ci soffermiamo un momento su alcuni di questi vocaboli noteremmo subito come tutto torna, perché in realtà anche nelle lingue parlate ci sono i c.d. “corsi e ricorsi storici”. Prendiamo ad esempio un termine come fashion. Si presenta bene, così elegante, sembra quasi rendere con questo suono fluido, l’idea di quello che il concetto esprime. Conoscendo la scarsa creatività inglese, scopriamo però che questa parola in realtà di inglese non ha nulla! Viene adottata dal più “charmant” francese che a sua volta si rifà ad un’altra lingua : l’intramontabile latino!
Fashion ‹fä′šën› s. ingl. [dal fr. façon «modo», che è dal lat. factio -onis, nel sign. generico di «modo di fare» (der. di facĕre «fare»)], usato in ital. al femm. (Enciclopedia Treccani).
Probabilmente un termine come fashion prima di diventare tale ha fatto dei lunghi giri trasformandosi nelle varie declinazioni ed oggi per noi ha un suono gradevole e una estrema facilità di utilizzo. Allora forse tutto questo mio lungo ragionamento non ha più senso e magari un giorno, il termine bookare diventerà buccare e nessuno si ricorderà più della sua provenienza!
Considerazioni personali a parte, ciò che davvero mi infastidisce è l’uso di un lessico improprio in politica. Ora se termini come trendy, fashion, glamour, check-in, diventano velocemente di uso comune perché è la massa che li rende popolari, l’uso scorretto e sconsiderato di parole straniere, incomprensibili ai più, male usate e spesso abusate nel gergo politico, mi destabilizza totalmente!
Ancora oggi quando sento al notiziario pronunciare una parola come “impeachment” rabbrividisco e mi chiedo “ma poi che caspita sarebbe sto impeachment in concreto?”
Quando leggo sul giornale, o sento al tg che il Premier ha stabilito che la flat tax non rientra nella spending review e quindi qualsiasi tipo di jobs act non si combina con il welfare del paese perché molti subiranno il mobbing, a me verrebbe solo voglia di scappare e fare footing!!
Footing! Che ridere che mi fa questa parola che andava di gran moda negli anni 80! Oggi è tanto desueta quanto impropria. In inglese infatti footing non significa assolutamente correre! Probabilmente qualcuno un bel giorno se ne è accorto e così questa parola usata in maniera impropria, è finita nel dimenticatoio. Peccato che nessuno ha pensato do sostituirla con un più termine familiare e comune come “correre” o “corsa”.
Anche in questo caso la nostra creatività ci ha portati fuori casa, a prendere di nuovo in prestito un’altra parola inglese (almeno stavolta azzeccata): jogging!!
Tornando dunque alla politica e al gergo tecnico intriso di inutili anglicismi, io voto per il NO! I nostri “amati” rappresentanti parlamentari in Tv ostentano termini impronunciabili e incomprensibili, poi ad un incontro internazionale con rappresnetanti provevienti da tutto il mondo, raffazzonano quattro parole in croce buttate prive di senso e pure mal pronunciate!
E a proposito di pronuncia errata e scarsa conoscenza dei termini usati senza criterio, vogliamo parlare della gaffe dell’ultimissima ora, dove il governatore di una regione trasforma il già di per sé incomprensibile care giver: portatore di cure?, assistente? In un car giver: che sarebbe chi? colui che ti presta la macchina? Aiuto portate un dizionario!!
Ma dare a questa nuova figura assistenziale un nome proprio italiano era davvero cosi difficile?
E arriviamo alla nota dolente: l’era del Coronavirus. Dallo scoppio della pandemia mi chiedo se vi siano stati più contagiati dal virus, o i decessi per incomprensione delle regole da rispettare.
Difficili, astruse e spesso buttate lì senza troppo zelo, le regole, non solo hanno, e continuano a sconvolgere le nostre vite da ormai 12 mesi, ma spesso non seguendo un vero criterio, finiscono per incasinare più che aiutare.
Siamo in un periodo di continui lockdown per prevenire contagi, quindi tanto smart working (che per noi diventa smart work) seguito da call interminabili, linee wi-fi spesso scarse che improvvisamente vanno offline, password da memorizzare, ragazzi che non studiano più a scuola, ma seguono lezioni a distanza su varie room. Facciamo il tampone di controllo al drive in (ma non era un cinema all’aperto?) e se non sono positivo la sera mi dò alla movida. Il governo ci ci invita ad effettuare tanto shopping usando la nostra carta in maniera facile e veloce: basta che ci scarichiamo l’app per il cashback. Non fa una piega no?
Di sera però torniamo tutti italiani. Alle 22 scatta l’ora X. La chiusura definitiva di tutte le attività per tutti. Come l’hanno chiamato l’orario di rientro notturno? Time break? No non mi pare. Overnight? Nemmeno.
Ah sì, adesso ricordo! In questo caso, in barba a tutti i termini esterofili adottabili, per descrivere un momento cosi delicato della nostra vita da reclusi, è stato ripescato un vocabolo, che risuona terrificante nella mente di tutti: dagli anziani che lo hanno provato in prima persona, ai più giovani che lo hanno vissuto attraverso i ricordi dei loro nonni :
COPRIFUOCO.
E finiamola qui.
Cinquantennials
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